XXXI.

Alessandro Manzoni

1. La vita

Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo del 1785 da Pietro e da Giulia, figlia del grande illuminista Cesare Beccaria, una coppia in verità male assortita sia per la differenza di età, sia per il contrasto di carattere fra il marito, ormai anziano e scarsamente colto e brillante, e la giovane e vivacissima moglie. I contrasti fra i due coniugi giunsero a tal punto che nel 1792 essi convennero di separarsi e Giulia passò a convivere con il conte Carlo Imbonati. Il piccolo Alessandro fu cosí, già sui sei anni, inviato nel collegio dei padri Somaschi a Merate, per poi passare nel 1796 in quello, pure dei Somaschi, a Lugano e nel 1798 in quello dei Barnabiti a Milano, rimanendovi fino al 1800 e ricevendovi un’educazione letteraria fortemente classica e filosofica di moderato sensismo, ma presto aggiungendovi, con letture personali, una forte tendenza razionalistica e illuministica, antitirannica, anticlericale, democratica, che trova precoce espressione nel poema Il trionfo della libertà, scritto nel 1801 e si matura in senso piú chiaramente nazionale e con maggior gusto di concretezza storica negli anni seguenti, quando a Milano (dove egli – a parte una breve parentesi veneziana – vive nella casa paterna, ma con piena indipendenza, fino al 1805) entra in contatto con gli esuli napoletani, Lomonaco e Cuoco, da cui viene indirizzato alla conoscenza del pensiero vichiano, mentre in lui le tentazioni di una vita dissipata, rese facili dalla sua condizione di giovane, nobile, ricco e indipendente, vengono vinte da una precoce serietà morale, da una austerità di costumi, che rimarranno elementi fondamentali del suo carattere e del suo atteggiamento nella vita.

Nel 1805 il Manzoni, che nel frattempo aveva scritto vari componimenti di tono neoclassico e di intonazione morale e satirica, raggiunge la madre a Parigi dove ella aveva, nel marzo di quell’anno, perduto l’amico carissimo, l’Imbonati, per la cui morte Alessandro scrisse il carme In morte di Carlo Imbonati, omaggio ad un uomo retto e virtuoso e insieme espressione di un programma personale di vita e di arte ispirata ad alti principi morali di sobrietà, di indipendenza, di fedeltà alla verità e alla virtú, di lotta contro la viltà e il vizio. Questo programma trovava alimento di cultura e di idee nella ricca vita culturale parigina e specie nella frequentazione del salotto di Sofhie Condorcet e dei suoi amici ideologi (quegli uomini di cultura che si richiamavano all’illuminismo e al sensismo contro il risorgente spiritualismo) e nell’amicizia stretta con lo storico e filologo Claude Fauriel, promotore della nuova cultura romantica, mentre il Manzoni arricchisce la sua esperienza intellettuale con una vasta lettura degli scrittori francesi e specie dei grandi moralisti e oratori cattolici del Seicento, elemento fondamentale nella formazione del suo pensiero e della sua stessa arte.

Intanto nel 1808 egli sposava Enrichetta Blondel, di famiglia ginevrina e di religione calvinista, e questo matrimonio veniva ad incidere profondamente su di una evoluzione del suo spirito, portato dalle nuove responsabilità familiari, dall’affetto profondo per la giovane moglie e dalla stessa vicinanza alla forte fede religiosa di questa (che pur veniva volgendosi al cattolicesimo senza perdere il fondo severo del suo originario calvinismo), a ricercare un piú solido fondamento alle sue naturali aspirazioni morali, mentre la frequentazione a Parigi di un sacerdote, il genovese Eustachio Degola, suscitava in lui un lento e tormentoso passaggio dalle sue posizioni di libero pensatore al desiderio crescente di una fede religiosa che gli si presentava, dato il giansenismo del Degola (come poi, ritornato in Italia, quello del vescovo Tosi), nelle forme rigorose di una religiosità fondata su di uno strenuo impegno morale, su di un’assoluta intimità, scevra di ogni aspetto superstizioso, cosí come opposta ad ogni tendenza di potere temporale della chiesa e anzi legata a un cristianesimo liberale e democratico, secondo i caratteri di quel giansenismo che nel Settecento aveva avuto vivi rapporti con il riformismo statale e con la stessa rivoluzione francese.

Insomma il Manzoni venne in quegli anni maturando una crisi spirituale che nel 1810 si concluse nella conversione alla religione cattolica (cui già la moglie Enrichetta si era convertita), in una forma che permetteva al Manzoni di vivere coerentemente i fondamenti cristiani dell’amore del prossimo e dell’assoluta fiducia nella provvidenza divina senza con ciò dover sacrificare (come sarebbe potuto avvenire in un cattolicesimo retrivo e conservatore) il suo vivo amore per la libertà e per la patria e la forte attenzione alla sorte degli umili e degli oppressi, che trova anzi un particolare incentivo e appoggio nell’amore cristiano e nella fede in Cristo come redentore di tutto il genere umano, senza alcun privilegio per i potenti o per i popoli dominatori di cui viceversa si evidenziano le ingiustizie e gli abusi alla luce di una fede che poteva, a suo modo, recuperare molti elementi dello spirito di eguaglianza, fraternità e libertà della rivoluzione francese.

La conversione religiosa (frutto, come dicevo, di una lunga crisi e non fulminea e improvvisa, né solo facilmente collegabile a celebri fatti precisi come la preghiera a Dio nella chiesa di San Rocco, quando durante una festa il Manzoni aveva perduto tra la folla la moglie Enrichetta) è il momento essenziale della vita del Manzoni, che da quella conversione e dalla fede religiosa viene dal ’10 in poi tutta informata e sostenuta, cosí come avviene per l’ispirazione artistica manzoniana che da quella nuova certezza ricava il suo profondo rinnovamento e lo svincolamento dalle forme neoclassiche dell’attività giovanile. Nello stesso 1810, in luglio, il Manzoni rientra in Italia dove rimarrà ormai definitivamente, tranne un soggiorno a Parigi fra il ’19 e il ’20 dovuto alla ricerca di cure mediche per la malattia nervosa che lo tormentò per tutto il resto della sua vita e che tanto accresce la forza di dominio e di serenità con cui il poeta seppe contenere le sue inquietudini, depressioni e persino manie della sua acuta nevrastenia.

Fra la casa di Milano e le sue ville di Brusaglio e di Lesa la vita del Manzoni prende d’ora in poi un ritmo esterno estremamente monotono, interrotto solo dal viaggio ricordato a Parigi e da brevi soggiorni, nel ’27, nel ’52 e nel ’56, a Firenze, dove (specie nel soggiorno del ’27) lo scrittore si recò per attingere l’uso vivo della lingua alla sua sorgente piú viva, da lui considerata (secondo la sua teoria linguistica) unica vera fonte della lingua per tutti gli scrittori italiani. In quel ritmo tranquillo e in abitudini uguali e sedentarie il Manzoni visse le due fasi diversamente fervide della sua lunga vita. La prima è quella che va dal ritorno in Italia al ’27 e che, in un intensissimo sviluppo, vede il dispiegarsi del genio manzoniano dagli Inni sacri alle tragedie, alle odi politiche, agli scritti di carattere storico, filosofico e letterario, al romanzo pubblicato appunto fra il ’25 e il ’27 dopo le precedenti stesure iniziate fra il ’21 e il ’23.

La seconda, tanto piú lunga, ma sterile, è quella che va dal ’27 alla morte (avvenuta in Milano il 22 maggio 1873) e che comprende vicende dolorose sopportate con virile e religiosa accettazione (la morte di Enrichetta nel ’33, della madre nel ’41, della seconda moglie, Teresa Borri Stampa, nel ’61 e di ben sei figli degli otto avuti da Enrichetta), mentre le vicende del Risorgimento e dell’unità d’Italia lo hanno come spettatore sentimentalmente e intellettualmente impegnato, ma non come attivo partecipe. Eletto nel ’61 senatore del nuovo regno d’Italia, non partecipò alle sedute del Senato se non in rarissime occasioni pure assai significative per un cattolico liberale e ben distinto dalle posizioni temporali e antiunitarie della Chiesa, come nell’occasione del voto favorevole alla legge che dava a Vittorio Emanuele il titolo di re d’Italia. In quei lunghi anni il Manzoni non cessò di pensare, di conversare in un ristretto cerchio di amicizie (fra cui, all’inizio, essenziale fu l’amicizia e la guida spirituale del Rosmini), di scrivere. Ma si trattò, come vedremo, di opere non piú poeticamente ispirate (se non per quanto, in parte, può riguardare la lunga revisione prevalentemente, ma non unicamente linguistica dei Promessi sposi), bensí di scritti educativi, filosofici, linguistici, storici, che possono dimostrare l’acuirsi della sottigliezza mentale e moralistica del Manzoni, ma il deciso declino della sua forza originale e del suo impegno piú avanzato e progressivo.

2. Le liriche

La prima attività letteraria del Manzoni, prima dell’avvenimento decisivo della conversione, si colloca, come già accennammo, nella zona di gusto neoclassico. Prima con la visione in terzine, Il trionfo della libertà, del 1800, che riecheggia chiaramente i modi costruttivi e linguistici del Monti, pur esprimendo una piú sincera passione per il tema della libertà in accordo con l’educazione libertaria alfieriana e con motivi dell’eredità illuministica lombarda a cui il Manzoni deve tanto della sua formazione ideale (ampliata poi dal contatto con l’illuminismo francese). Poi con nuovi componimenti in versi che piú chiaramente risentono degli esempi pariniani, alfieriani, foscoliani, di un tipo di neoclassicismo cioè piú robusto e coerente alla fondamentale ispirazione morale manzoniana alimentata da quei grandi esemplari etico-poetici, anche se attenuata spesso da elementi di carattere amoroso e da un gusto illustrativo e descrittivo piú letterario e scolastico, percepibile nel poemetto idillico, l’Adda (pur non privo di note piú intime e pensose), o in componimenti ispirati da motivi amorosi come l’ode foscoleggiante Qual su le cinzie cime, o il poemetto Urania, del 1809, che divaga in descrizioni mitologiche anche se il suo tema (l’iniziazione degli uomini primitivi alla civiltà ad opera delle Muse e delle Grazie) intendeva manifestare una concezione della poesia come opera di cuori e di menti profonde e sollecite del bene comune, che ben si raccorda con gli interessi crescenti del Manzoni verso un esercizio dell’arte degna solo se fondata su un serio e severo amore della verità e del bene degli uomini, una salda moralità e sincerità. Ideali che già il Manzoni aveva esaltato nei quattro Sermoni del 1802-1803, in contrasto satirico con modi e abitudini dissipate del tempo (risentendo di Parini, dell’Alfieri satirico e magari dei Sermoni di GaspareoGozzi), e ancor meglio aveva celebrato nell’immagine esemplare di Carlo Imbonati nel Carme scritto nel 1805 per la sua morte, in cui aveva definito un primo programma di arte e di vita, di serietà morale e poetica assai significativo per il maturarsi del suo carattere e della sua vocazione etico-artistica: «Sentir... e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: ... non ti far mai servo / non far tregua coi vili: il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo, / che plauda al vizio, o la virtú derida».

Ma è solo con la conversione che il Manzoni libera la sua fondamentale vocazione poetico-morale dall’impaccio di una forma neoclassica e aristocratica troppo discordante dal suo sentire piú nuovo, bisognoso di una piú diretta comunicazione ad un piú vasto pubblico, libero dalle immagini mitologiche derivanti da una visione vitale diversa da quella moderna, anche se l’impetuosa certezza della nuova fede religiosa, della verità morale in essa contenuta, non poteva non provocare un’iniziale difficoltà espressiva nella ricerca di una nuova forma poetica originale, sganciata dalla consuetudine neoclassica ben consolidata, adatta ad una comunicazione piú popolare e pur non priva di una propria artistica dignità.

Tale difficoltà, inerente alla novità della sostanza che il Manzoni voleva e sentiva di dover esprimere poeticamente (ispirazione e missione di nuovo poeta cristiano, di rivelatore delle verità della fede salvatrice e redentrice fanno per il Manzoni convertito tutt’uno), si rivela certo nei primi inni sacri scritti fra il 1812 e il 1815 e non esenti da impacci e cadute nella difficile ricerca di una nuova forma lirica, corale e capace di esprimere sentimenti e verità appartenenti a tutta la vasta comunità degli uomini rinnovati dalla fede cristiana, da una religione viva e popolare. Non che fosse mancata nella nostra letteratura una tradizione di poesia religiosa, ma essa era rimasta in genere troppo aulica e soggettiva, mancante del forte bisogno magnanimo di profonda coralità, popolarità, oggettività in cui confluivano insieme le nuove spinte romantiche (che il Manzoni era venuto apprezzando attraverso l’amicizia con il romantico Fauriel) appunto ad una poesia che fosse popolare, non solo come comunicabile e comprensibile al popolo, ma come nata da un’identificazione del poeta con i sentimenti, le convinzioni attuali e schiette del popolo.

Cosí la convinzione religiosa del convertito e la crescente adesione dello scrittore a fondamentali aspetti della poetica romantica convergono in questa impresa di una nuova lirica.

Nacquero cosí gli Inni sacri, con cui il Manzoni si proponeva di celebrare tutte le maggiori date e feste della Chiesa e di cui, fra il ’12 e il ’15, scrisse La resurrezione (1812), Il nome di Maria (1812-1813), Il Natale (1813), La passione (1814-1815), per poi fra il ’17 e il ’22 comporre La Pentecoste e piú tardi ancora il frammento dell’Ognissanti.

Comune a tutti questi inni è la sicura convinzione religiosa, morale e artistica e la ispirata volontà di dar voce poetica ad avvenimenti essenziali per la comunità dei credenti redenta da Cristo e pur ancora bisognosa di attingere dalla grazia divina e da quell’opera di redenzione e di liberazione dal peccato e dai limiti delle tentazioni mondane, degli istinti di sopraffazione, di ingiustizia, di interesse egoistico, una continua linfa di carità, di solidarietà e fraternità da realizzare anzitutto proprio nel mondo, nella vita terrena, nei rapporti familiari e sociali. Ché proprio alla realtà quotidiana e semplice, al mondo degli uomini cosí oppressi ancora in un mondo ingiusto e crudele, dominato dall’orgoglio e dai privilegi dei potenti, la poesia manzoniana rivolge il suo sguardo amoroso e la sua profonda simpatia, e da esso trae le sue note piú schiette o di gioiosa e popolare festa collettiva, quando i bambini si vestono a festa e l’umile tavola dei poveri si adorna dei loro modesti cibi migliori o di commossa confidenza dei diseredati nell’attenzione benevola e sollecita delle creature divine, come quando la «femminetta» depone la «sua spregiata lacrima» nel seno regale, ma materno della Madonna, o – ritornando alla redenzione operata dal cristianesimo nell’antico mondo pagano, ma anche riferendosi alla persistente schiavitú in certe parti del mondo moderno – quando il poeta rappresenta la situazione della schiava che «sospira» guardando i propri figlioletti destinati a crescere schiavi.

E d’altra parte comune agli Inni sacri è l’afflato possente ed epico della grazia (elemento cosí particolarmente centrale nel cattolicesimo giansenistico cui il Manzoni aderiva pur senza la minima volontà di eresia e di opposizione alla Chiesa) che continuamente è invocata a illuminare e a salvare gli uomini insufficienti a vincere i loro limiti naturali con la loro semplice volontà e ragione (armi potenti solo se appoggiate alla fede e alla grazia), come comune è la forza e densità delle immagini, la velocità commossa del ritmo che nascono dalla stessa commozione incalzante e dalla pienezza spirituale del poeta che tanto piú si fa possente e vigorosa quanto piú identifica con la voce corale dei credenti la propria voce di uomo e di artista persuaso insieme delle verità possedute e della sua missione poetica.

E già nei primi quattro inni, che – come accennavo – sono piú esposti alla stessa difficoltà di realizzazione di una poesia cosí nuova e inconsueta e piú a volte risentono di una certa eccessiva aderenza a passi e modelli del Vecchio e Nuovo Testamento o di qualche maggiore concessione a forme troppo esplicitamente celebrative e oratorie, indubbiamente colpiscono l’eccezionale vigore ritmico, la scandita forza dei trapassi veloci, la fulminea evidenza o il sospeso e profondo incanto di potenti figurazioni soprannaturali, ma piene di dense realtà: il Cristo che risorge dalla tomba «come un forte inebriato», l’attenzione estatica dei pastori a Betlemme, il «fiammeggiante volo» degli angeli nella notte natalizia, la figurazione dell’angelo che siede candido e tacito sulla tomba scoperchiata del Cristo.

Ma tanto piú sicura, organica, sinfonicamente corale, incessante nel suo sgorgo potente è la poesia della Pentecoste, il capolavoro degli Inni sacri, la sintesi alta e matura (non per nulla fu cosí a lungo pensata ed elaborata e in un periodo in cui tutta l’esperienza spirituale e poetica manzoniana era andata approfondendosi ben al di là della prima sua espressione nei quattro inni del ’12-15) dei motivi piú profondi del cristianesimo democratico del Manzoni.

Infatti in questo grandioso inno-coro in cui, unificati in Dio e nella sua grazia, a tutti aperta, tutti gli uomini, ovunque essi siano, in ogni luogo della terra, esprimono insieme la loro implorazione a Dio, il loro amore fraterno, mentre la luce redentrice e animatrice dello Spirito Santo investe tutta l’umanità, «propizio» non solo a chi lo implora, ma anche a coloro che ancora lo ignorano, rinnovando il miracolo della Pentecoste, quando esso iniziò la sua opera di redenzione, il Manzoni cattolico e moderno può dar voce a un sentimento profondamente cristiano e insieme democratico, a un cristianesimo che partendo dalla Chiesa militante investe tutta l’umanità e ne riassorbe tutti gli ideali di libertà e di socialità sviluppati nel lungo processo della storia, saldata cosí con lo spirito animatore dell’opera di Cristo. E la Chiesa manzoniana perde ogni carattere chiuso, dogmatico e autoritario, coincide con un’apertura perenne a tutta l’umanità rinnovata e rinnovabile dalla grazia divina e dalla sua realizzazione piú sublime nello spirito di fratellanza e di amore che nel profondo contatto con un Dio di amore, piú che di potenza, rianima gli stanchi, gli infelici, i poveri (a cui, si noti bene, il cielo appartiene per le loro sofferenze), mentre con impeto severo atterra l’orgoglio dei prepotenti e lo volge in pietà, ispira altruismo nei fortunati, suscita i sentimenti piú puri e degni, convenienti alle varie età e condizioni, fino al suggello profondo del «brillare» della luce dell’amore divino nello sguardo incerto di chi muore nella speranza e nella fede. Certo la prospettiva del Manzoni non era (e lo vedremo ancora a proposito degli stessi Promessi sposi) una prospettiva di ribellione e di rivoluzione sociale, ma, se storicamente tale può essere il limite della sua prospettiva ideale, ciò non toglie che, sulla via cristiana di una società tutta ispirata dall’amore piú che rovesciata e rinnovata da una forza rivoluzionaria, il Manzoni abbia poeticamente raggiunto una singolare e coerente altezza spirituale e abbia vissuto, in una dimensione spirituale, una possente esigenza di uguaglianza nell’amore fraterno e nella sua coincidenza nell’amore per Dio. E tutto in questo grande inno è perfetto e interamente realizzato, come in un impeto ritmico senza indugi e divagazioni, mai rallentato e indebolito dall’inizio alla fine, consolidato in immagini dense e organiche, in cui si fondono perfettamente suono, evidenza, pensiero, solennità e dolcezza, potenza e delicatezza.

La Pentecoste fu compiuta nel 1822, quando già il Manzoni aveva scritto le due tragedie (in cui la spiritualità manzoniana aveva trovato complesse espressioni e persino vissuto alti momenti di crisi nella difficoltà di applicare il suo alto mondo religioso alla cruenta e drammatica storia umana, dominata da leggi di potenza e di forza) e le altre due liriche di argomento storico-politico già – come La Pentecoste – illuminate dalla centralità della grazia, della provvidenza, dell’amore cristiano.

Nella prima delle due liriche del 1821, Il Cinque maggio, scritta in un impeto poetico eccezionale appena ricevuta la notizia della morte di Napoleone, il Manzoni grandiosamente esprime, in una specie di singolare inno storico-sacro, la profonda commozione per la scomparsa di un grande personaggio che, pur con le sue guerre di conquista (non certo care al poeta delle indipendenze nazionali, come ben si chiarisce nell’altra lirica Marzo 1821), aveva provvidenzialmente diffuso le grandi idealità civili, morali e sociali della rivoluzione francese, stimolando le stesse esigenze di indipendenza nazionale che suscitarono la resistenza a lui dei popoli conquistati.

L’eccezionale vicenda di Napoleone, grandiosamente rappresentata in un susseguirsi incalzante di immagini epiche di battaglie, vittorie, sconfitte, nuove vittorie, fino al decisivo declino e alla scomparsa del personaggio nell’esilio solitario di Sant’Elena, è intimamente fusa con la rappresentazione della volontà divina che di Napoleone si è servita per muovere la storia nel trapasso grandioso e decisivo fra due epoche e promuovere un ampliarsi e diffondersi di quelle idee di libertà, di indipendenza dei popoli, di uguaglianza e fraternità in cui il poeta cristiano vede come la nuova continuazione e realizzazione storica e umana del grande messaggio cristiano. Sicché l’inno coinvolge, nel suo fervido e alacre ritmo entusiastico e commosso, la storia umana e l’esaltazione della potenza divina che la sorregge e la anima, mentre nell’ultima parte dell’ode la meditazione pensosa del poeta si cala nell’intimo della personalità di Napoleone, ne scandaglia, con profonda forza psicologica i tormenti, i ricordi che lo sopraffanno la disperazione che lo assale, ma – proprio a questo punto critico di un dramma cosí umano pietosamente indagato – ne esalta la salvezza operata dall’intervento di Dio che gli apre la via della fede e della speranza in una vita ultraterrena («dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò»; una delle espressioni piú grandiose e possenti di questa poesia della storia rappresentata insieme nella sua grandezza e nella sua inferiorità a valori religiosi ed eterni) e posando sul suo letto di morte ne allontana ogni giudizio impietoso.

Con quest’ultima sublime scena, in cui il Dio «che atterra e suscita / che affanna e che consola» (e cosí il poeta ribadisce altamente la centrale idea dell’inno storico-sacro, l’idea della storia umana mossa da Dio, e di un Dio che vive e si realizza nella storia degli uomini) posa accanto al cadavere muto e solitario del grande personaggio prima rappresentato nella sua eccezionale vitalità e nelle sue azioni fulminee e ora rivisto nella sua caducità di mortale, ma anche nell’attenzione amorosa che, come ogni uomo, suscita in Dio, si chiude e si rasserena questo capolavoro che, come e forse piú della Pentecoste, dimostra la grande forza lirica manzoniana, la sua natura corale (la voce del poeta si identifica con la voce dell’umanità che rivede la propria storia alla luce della fede e nella certezza che essa è mossa e regolata dalla superiore volontà divina), mentre esso ribadisce la posizione del Manzoni cattolico, ma ben diversa da tanti cattolici suoi contemporanei (e magari come lui convertiti al cattolicesimo dopo una gioventú giacobina e incredula) che risolutamente avversavano tutto ciò che era nato con la rivoluzione francese e con l’opera di Napoleone.

D’altra parte l’altra ode storica e politica, Marzo 1821 (già con la sua dedica al poeta tedesco Theodor Körner morto nella battaglia di Lipsia per l’indipendenza germanica contro l’oppressione napoleonica), chiarisce come il Manzoni sapesse insieme valutare l’opera di Napoleone quale diffusore delle nuove idealità della rivoluzione francese e condannarne l’aspetto oppressivo nei confronti dei popoli conquistati e insorti per «difendere o riconquistare una patria». Quest’ode patriottica era stata preceduta, vari anni prima, da due poesie di carattere patriottico, Aprile 1814 e il frammento Il proclama di Rimini, tanto piú incerte e approssimative poeticamente, anche se il frammento appare ben significativo almeno per un verso, celebre per la sua durezza, ma anche per la ferma convinzione manzoniana della necessità dell’unità nazionale per una vera libertà degli italiani: «liberi non sarem se non siam uni». Ma la nuova poesia (scritta nel ’21 anche se pubblicata, a causa della censura austriaca, solo nel 1848) è su di un piano di maturità tanto maggiore (anche se lontano dall’altezza poetica del Cinque maggio) sia nella stessa piú manzoniana definizione del concetto di nazione («Una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue, di cor»), sia nella fusione dell’impeto esortativo eroico-patriottico (che prefigurava, sulla base delle piú accese speranze del moto piemontese del ’21, quando l’esercito dei liberali piemontesi sembrava capace di passare il Ticino e di entrare in Lombardia per liberarla dall’Austria e congiungersi con i liberali lombardi) con i motivi piú profondi della prospettiva manzoniana umana e religiosa: la pietà per la patria oppressa, l’intenso sentimento della fratellanza umana appoggiato alla religiosa idea di un Dio «che è padre di tutte le genti» e che non ha mai detto a nessun popolo di opprimere e conquistare altre terre, la simpatia profonda per i vinti e per gli oppressi.

3. Le tragedie

Negli anni in cui – compiuti i primi quattro inni sacri – il Manzoni viveva un’esperienza interiore piú drammatica e pessimistica, essenziale alla maturazione della piú salda persuasione religiosa della Pentecoste e del Cinque maggio, tale esperienza di crisi profonda trovava espressione, a diverso livello, nelle sue due tragedie, Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi, la cui stessa forma tragica non era solo scelta per ragioni di adesione alle prospettive della poetica romantica che tanto puntava sul teatro, ma era scelta insieme per rispondere piú adeguatamente a questa fase di tormentosa ricerca interiore di uno scrittore già dominato da una centrale ispirazione religiosa, e tuttavia (dopo l’impeto piú unitario del neofita, del convertito, tipico dei primi «inni sacri») assillato dal dramma della storia umana, sia nelle sue vicende di popoli ed epoche sia nel comportamento e nell’intimo di singole personalità storiche, oppresso dal sentimento pessimistico del contrasto fra i disegni della provvidenza e quelli degli uomini e specie dei potenti trascinati dal loro interesse, dalla loro sete di affermazione, di successo mondano, di potere, e perciò portati ad agire secondo le leggi dell’utile, della forza, della crudeltà. Queste leggi appaiono agli occhi del Manzoni, e alla sua lucida intelligenza di erede degli illuministi, reali ed effettive, e insieme mostruose e nettamente opposte agli ideali cristiani dell’amore del prossimo, della comprensione e compassione per gli altri, della rinuncia ai beni mondani per il godimento di beni superiori e pur da ottenere già sulla terra nell’esercizio delle virtú umane e religiose.

Ne nasceva un dramma profondo e un urto fra la fede religiosa nella volontà e giustizia divina e la costatazione dolente di una realtà storica e umana cos’ diversamente regolata dalla violenza e dalla forza.

E tanto piú il dramma si approfondiva quando gli stessi personaggi piú magnanimi e puri si trovavano nell’intrico tragico dei loro alti ideali e delle loro passioni e dei loro doveri mondani: intrico e contrasto risolti solo dal prevalere finale del loro elemento religioso e ideale proprio nella morte, nella sconfitta mondana, nel sacrificio, nell’identificazione con la volontà divina configurata come grazia, gratuita e superiore alla stessa tensione religiosa dei singoli o addirittura come «provvida sventura», che strappando questi personaggi d’eccezione alla loro condizione di potenti e ponendoli fra gli oppressi, i diseredati, gli sconfitti, apre loro la via della salvezza e della pacificazione religiosa.

Il grande tema della «provvida sventura» si enuclea nitidamente nella seconda e tanto maggiore tragedia, l’Adelchi, scritta fra il 1820 e il 1822, anche se nella prima, Il Conte di Carmagnola, scritta fra il 1816 e il 1821, se ne profila già il senso nella sorte del protagonista redento solo dalla morte ingiusta e dalla sua finale comprensione del valore positivo, religioso, di tale morte, che lo libera dalla logica della potenza entro cui egli aveva prima svolto la sua vita.

La prima tragedia (che rappresenta le vicende del famoso condottiero quattrocentesco, passato dal servizio dei Visconti a quello della repubblica veneta e che, dopo la vittoriosa battaglia di Maclodio, venne ingiustamente in sospetto di tradimento e fu fatto arrestare e decapitare dalla Signoria veneziana) è nel suo insieme opera piuttosto debole e opaca, poco sicura sia da un punto di vista tecnico, sia da un punto di vista di ispirazione. In essa matura piú faticosamente il grande tema della giustizia divina che si rivela superiore a quella cosí incerta degli uomini, o chiusi nella loro cupa arte politica (di cui è rappresentante piuttosto schematico Marino), o generosi, ma incapaci di imporre i loro ideali superiori (soprattutto quelli dell’amicizia e della virtú cosí forti in Marco, fedele amico del conte) di fronte al loro stesso sgomento nella dolente contemplazione del feroce predominio della forza. Sicché, come dicevo, solo nel protagonista, e proprio nel momento dell’approssimarsi della morte, si attua il pieno riconoscimento della giustizia e della provvidenza divina che nella stessa morte offre una consolazione sicura, un superamento della disperazione provocata dai procedimenti crudeli e dalla miope giustizia degli uomini. E lo stesso celebre coro della battaglia di Maclodio (in cui il Manzoni sviluppa la sua poesia corale, esprimendo attraverso essa le proprie idee come frutto di una vasta esperienza personale della comune condizione umana) mal può paragonarsi – pur nella sua forza di rappresentazione della battaglia e nel sentito motivo del dolore provocato dalle lotte fratricide che avevano lacerato e resa impotente la nazione italiana – all’altezza poetica e alla forza espressiva dei due cori della seconda tragedia.

Tutto nell’Adelchi è portato ad un’altezza e ad una tensione che fanno di questa tragedia non solo il capolavoro del teatro romantico in Italia, ma anche una delle opere piú energiche e tormentosamente vibranti del Manzoni, l’espressione piú profonda di una visione della storia umana cosí pessimistica (la giustizia umana non è che «una feroce forza» che «il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto», le guerre si ammantano di grandi nomi e ideali, ma in realtà si concludono con un compromesso fra i conquistatori e i precedenti oppressori ai danni dei popoli inermi e oppressi) che tanto piú appare necessario, a riequilibrare su di un altro piano questa tremenda vicenda di ingiustizia e di sopraffazione, il ricorso alla fede religiosa, l’intervento della provvidenza che si configura nella forma esasperata di una sventura provvidenziale (la «provvida sventura», motivo essenziale di tutta la tragedia) purificante e consolatrice proprio in quanto colpisce alcuni potenti, privilegiati dalla grazia divina, e da questa disposti a far prevalere, in se stessi, sulle proprie umane passioni, la purezza, la virtú, la comprensione di questa singolare salvezza attraverso le sconfitte pratiche, la sventura, la morte.

Riprendendo dall’Alfieri il dissidio fra ideale e reale, fra virtú e fortuna, la profonda svalutazione del potere e del successo, il Manzoni, in questa fase del suo sviluppo spirituale e poetico, colora religiosamente questo dissidio e lo porta ad una fortissima divaricazione religiosa e romantica. L’eroe che dà nome alla tragedia, l’eroe malinconico e drammatico (che certo rappresenta il personaggio piú profondamente romantico creato dal Manzoni), è appunto quello che vive piú interamente questo stato di dissidio e piú chiaramente riconosce la triste realtà del mondo, della politica, della storia, cosí come piú profondamente comprende e realizza nella sua morte generosa e cristiana la legge di una prospettiva religiosa che lo riscatta dalle colpe dei potenti e prepotenti (cui egli è reso partecipe per la sua condizione di figlio del re longobardo Desiderio, oppressore del popolo italiano e ingiusto persecutore del pontificato romano) solo appunto con la sconfitta e la morte affrontata generosamente per quella fedeltà al padre e al re malgrado la chiara consapevolezza della colpa e dell’errore della condotta ideale e politica di quello. E cosí, su di un piano di minore presenza e intera consapevolezza, ma di scavo psicologico profondo, sua sorella, Ermengarda, sposa appassionata di Carlo, re dei Franchi, e da questo ripudiata per nuove nozze, poeticamente rappresenta, in piú delicati toni di sensibilità femminile, il dramma e la salvezza di una creatura pura e appassionata, che potrà essere riscattata dalle colpe della sua stirpe e della sua famiglia (non senza intima lotta e tormento, cosí vivamente rappresentati nel suo delirio, nel convento di Brescia, dove si è ritirata presso la sorella Ansberga) solo in forza di quella «provvida sventura» che il grande coro dell’atto quarto (che commenta la sua morte e i pensieri e ricordi dolenti e rapiti del suo delirio di agonia) enuncia in forma piú diretta:

Te dalla rea progenie

degli oppressor discesa...

Te collocò la provida

sventura in fra gli oppressi...

Questa legge superiore cristiana, avvivata e ammodernata dalla profonda simpatia manzoniana per gli oppressi e diseredati (un cristianesimo rafforzato dall’esperienza della rivoluzione francese e dalle aspirazioni risorgimentali alla libertà di tutti i popoli), si precisa in questo grande coro (una delle espressioni piú alte della ispirazione lirico-corale del Manzoni), ma, a ben vedere, emerge da tutta la tragedia sia nelle punte alte dei personaggi singoli (appunto Adelchi ed Ermengarda), sia nella grandiosa, commossa e dolente rappresentazione della vicenda storica delle guerre fra longobardi e franchi per il possesso dell’Italia e che in realtà si risolve in una doppia oppressione dei decaduti italiani da parte dei vincitori franchi e di quei duchi longobardi che erano stati pronti a dissociarsi dal vinto re per passare dalla parte del vincitore e mantenere cosí la loro potenza.

E mentre il grande tema (avvivato dal riferimento alle vane speranze degli italiani del primissimo Ottocento nell’aiuto di potenze straniere per ottenere libertà e indipendenza) del popolo latino che assiste alla sconfitta dei longobardi oppressori e spera invano nella propria liberazione da parte dei franchi si espande grandiosamente nel primo coro (atto III) della tragedia, vive nelle complesse dimensioni della tragedia il mondo dei personaggi che aderiscono alle leggi del potere e della politica, dell’affermazione della propria potenza, e che si graduano fra il carattere piú alto, ma sempre unicamente mondano, dei due re antagonisti, Desiderio e Carlo, quello dei duchi longobardi traditori e persuasi del loro dovere di salvare comunque il proprio potere, quello del puro politico, Svarto, che vedrà nella contingenza storica la sua occasione di salire, con il tradimento, da umile condizione a potenza. Né mancheranno personaggi come il generoso Anfrido amico e fedele di Adelchi, o come il devoto e persuaso diacono Martino chiuso nella certezza della sua missione religiosa di salvare il papato, assalito da Desiderio, indicando a Carlo la via segreta attraverso le Alpi che porterà il suo esercito alle spalle di quello di Desiderio (e il lungo racconto del suo viaggio alpino porterà note di narrativa poetica suggestiva e romantica): personaggi che indicano la grande complessità della tragedia, l’impegno manzoniano di una rappresentazione piena dei vari caratteri e toni umani, anche se al centro, energico e quasi straziante, vive il grande contrasto fra la legge del mondo ingiusto e crudele e quella della grazia e giustizia divina che qui non porta nessun «lieto fine», nessuna pratica rivalsa dei puri sui malvagi, degli oppressi sugli oppressori, ma il sublime ed esasperato riscatto puramente religioso della «provvida sventura» e della salvezza attraverso l’accettazione del dolore e dello scacco mondano.

4. La genesi dei «Promessi Sposi»

C’è un complesso passaggio dalla zona delle liriche e delle tragedie (nelle loro punte piú alte e drammatiche di un pessimismo cristiano circa il mondo e la sua vana giustizia compensato dalla giustizia divina nelle forme della grazia che tocca e salva Napoleone morente o della provvida sventura che redime Adelchi ed Ermengarda collocandoli fra gli oppressi al mondo dei Promessi sposi. Un mondo, questo, in cui la forza della Provvidenza si dispiega piú pienamente e costantemente nel mondo operando (sulla base di un’onnipotenza che è insieme sapienza sicura come riconoscerà, con la sua umile e popolaresca battuta, Renzo nella sua fuga da Milano verso Bergamo: «Dio sa quel che fa») nella trama stessa delle vicende e nell’animo degli uomini puntando sí sull’animo di personaggi alti e complessi e variamente capaci (per forza morale e per condizione di potere temporale e spirituale) di inserirsi piú attivamente nei disegni divini (fra Cristoforo, l’Innominato convertito, il cardinal Federigo), ma anche e piú originalmente e nuovamente valorizzando la mediazione essenziale (nei confronti dei grandi personaggi ricordati) della fede schietta e delle virtú autentiche (anche se non prive spesso di errori impulsivi e di ingenui calcoli) del mondo degli umili. E questo troverà la sua punta sublime e semplice nel personaggio di Lucia, essenziale oltretutto nella logica del romanzo in quanto proprio essa, nel momento piú indifeso e inerme della propria vicenda, potrà e saprà farsi mediatrice (attraverso la pietà che suscita) della grazia divina al potente Innominato, solleciterà la crisi già in atto della conversione di questo, e cosí contribuirà decisamente al capovolgimento della vicenda centrale del romanzo, che ne preparerà, pur attraverso altre prove e sventure collettive e individuali, la soluzione rasserenante che è insieme la conferma della potenza della giustizia e della provvidenza divina già qui sulla terra e in un caso cosí significativo, ma storicamente ben poco illustre.

E certo se piú difficile è rispiegare interamente il complesso movimento interiore che portò il Manzoni a passare dalla concezione spirituale di una tragedia come l’Adelchi a quella di un romanzo come i Promessi sposi, si potrà almeno ricordare come già una premessa di questa svolta sia da riconoscere nella Pentecoste e nella sua prospettiva di attenzione della provvidenza divina a tutte le genti e particolarmente a quelle che ancora sono schiave e oppresse, e come altri scritti di questi anni cruciali, intorno al ’20-23 (quando già il Manzoni scriveva la prima stesura del romanzo) possono contribuire a meglio capire, in varie e convergenti direzioni, la nuova, piú piena e fiduciosa prospettiva dei Promessi sposi, la sua dimensione storico-religiosa, la sua tendenza realistica e la sua novità di epopea della provvidenza nel mondo della storia, nelle sue pieghe piú nascoste e umili, piú dolenti e trascurate nelle narrazioni storiche tradizionali, e insieme la sua novità artistica, la sua scelta della narrativa e della prosa e di una particolare forma narrativa e di prosa, e lo svolgimento della prima redazione del ’21-23, il Fermo e Lucia, alla seconda e fondamentale, i Promessi sposi, scritti fra ’23 e ’25, sino alla terza e conclusiva redazione del ’40-42.

Dovrà anzitutto ricordarsi quell’opera, Osservazioni sulla morale cattolica, del ’18-19, impostata come polemica confutazione della tesi del ginevrino Sismondi (che nella sua Histoire des républiques italiennes attribuiva la decadenza italiana alla influenza nociva della morale cattolica volta, secondo quello scrittore, piú a confortare l’ozio e la servilità del popolo che non le sue virtú) e svolta (pur con argomentazioni spesso troppo sottili e quasi sofistiche) a dimostrare la forza benefica della morale cattolica rivista dal Manzoni nel suo fondo cristiano-liberale, nel suo spirito di un eroismo pacato e accessibile a tutti (non solo ai grandi spiriti, agli «eroi»), praticabile nella vita di ogni giorno e nei piú umili e modesti doveri quotidiani, nel suo amore per il prossimo e per la sua libertà, nella sua condanna della violenza, della tirannia, dell’odio fra il popolo. E cosí nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (scritto in appoggio all’Adelchi, nel 1822) il Manzoni, mentre perseguiva un piú limitato impegno di apologia del passato come difensore degli italiani contro i longobardi oppressori, elaborava – sempre alla luce del suo cattolicesimo liberale e dei suoi ideali religiosi-morali – una vigorosa concezione dei rapporti tutt’altro che idillici fra oppressori e oppressi e portava la sua virile e pietosa attenzione sulla sorte del popolo italiano, nel periodo delle lotte fra longobardi e franchi, ridotto a un volgo disperso, a una moltitudine di uomini passati sulla terra senza lasciarvi traccia e pur meritevole di studio e di considerazione in una storia che non si risolva solo nella storia dei grandi protagonisti, dei re e degli eroi illustri o dei popoli vincitori e oppressori: come a lui apparivano, in una significativa antipatia per la retorica della romanità, gli stessi antichi romani, visti invece nella loro prepotenza e sopraffazione sugli altri popoli.

Ecco dunque alcuni grandi motivi che sono all’origine del grande romanzo: la persuasione della fondamentale presenza e attività della provvidenza nella storia umana, la concezione di un cattolicesimo non reazionario e non gesuitico, ma riassorbente gli ideali di libertà e di fraternità rafforzati dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, l’antipatia per i potenti che stravolgono l’uso del potere in forma di sopraffazione infrangendo cosí ogni corretta idea religiosa e morale, l’attenzione agli oppressi, agli umili che la storia o la letteratura tradizionalmente non consideravano e che anzi escludevano dalle loro narrazioni e rappresentazioni.

E invece il Manzoni, cattolico liberale e democratico (pur nei suoi limiti di moderatismo e di rifiuto della violenza anche rivoluzionaria, limiti che andranno poi sempre piú aggravandosi, come vedremo) e insieme romantico, sarà portato, in quegli anni decisivi per la sua produzione artistica, proprio a volgere la sua attenzione ai casi degli umili e degli oppressi, fino ad imperniare il suo grande romanzo sulla storia dei due «promessi sposi», due poveri contadini filatori di seta, rompendo decisamente con tutta una tradizione letteraria che aveva sempre puntato sugli eroi illustri, sulle vicende di principi e di potenti, su personaggi aristocratici immaginari o storici, ma sempre eccezionalmente illustri e alti.

A questa scelta e insieme alla forma narrativa mista di storia e di invenzione (come a quella piú lentamente attuata di una prosa parlata e comprensibile a tutti i lettori) il Manzoni era infatti portato anche dai suoi ideali letterari piú maturi, dalla sua adesione piú meditata e personale alle idee del romanticismo lombardo (lombardo, ma ricco di succhi del romanticismo europeo): idee che egli venne in quegli anni esponendo in scritti importanti come la Lettre a M. Chauvet o la lettera a Cesare D’Azeglio Sul romanticismo.

Mentre nella prima combatteva l’assurdità delle regole aristoteliche-classicistiche dell’unità di tempo e di luogo contrarie ad ogni rappresentazione schietta e naturale della verità storica e psicologica (regole che pesavano soprattutto sul genere tragico e che il Manzoni aveva già combattuto praticamente nelle sue tragedie e che ora tanto piú avrebbe dissolto nella libera narrazione del romanzo), nella seconda egli accentuava le conclusioni delle teorie romantiche circa il rifiuto dell’uso della mitologia (perché favolosa e menzognera e per di piú pagana, immorale, anticristiana), il rifiuto dell’imitazione pedissequa dei classici (senza perciò negare l’importanza della loro lettura: e la lettura di Virgilio, fra le altre, fu fondamentale per l’arte manzoniana dei Promessi sposi) perché contraria all’espressione della verità, della realtà, del sentimento moderno, e soprattutto circa la missione dell’arte che dev’essere moderna, popolare, alimentata dallo spirito moderno del cristianesimo, e che deve perciò avere per suo scopo l’utile, per mezzo l’interessante, per oggetto il vero.

Nacque cosí nel Manzoni l’idea di comporre un romanzo storico (e qui non gli mancò l’esempio dei romanzi storici, allora fortunatissimi, del romantico inglese Walter Scott), ma un romanzo storico che, nella rappresentazione di un periodo storico preciso ritratto in alcune vicende generali e nel suo colore, gusto, mentalità peculiari (il Seicento, nella Lombardia, sotto il governo spagnolo, nell’epoca della guerra fra Spagna e Francia per Casal Monferrato, e quindi con le vicende della rovinosa discesa dei lanzichenecchi imperiali, della carestia, dei tumulti, della peste a Milano e in tutta la regione) puntasse soprattutto alla rappresentazione della vita del popolo, degli umili, trascurati dalle narrazioni storiche e letterarie, e addirittura mettesse al centro della trama narrativa l’umile vicenda dei due giovani contadini, Renzo e Lucia, che, dopo inique persecuzioni di potenti sopraffattori e malvagi e presi nelle spire di vicende generali che li tormentano e li appenano, giungeranno al coronamento felice (di una felicità modesta e tranquilla come il loro animo semplice e schietto) delle loro innocenti e pure aspirazioni di amore coniugale, di vita familiare e onesta.

Cosí si saldano, già nell’impostazione del romanzo, nella scelta della forma della narrativa e di quella particolare del romanzo storico e nella scelta coerente di una lingua piana e lontana da ogni forma aulica e puramente letteraria, le ragioni morali, religiose, letterarie della matura personalità manzoniana viva e attiva nel proprio tempo storico e nelle prospettive di un romanticismo robusto e misurato, che riprende e sviluppa originalmente e con nuove esigenze nazionali, popolari, religiose le istanze civili e l’ansia di verità e di utilità della letteratura già vive nell’eredità dell’illuminismo, specie nelle forme che esso aveva avuto in Lombardia.

Da qui deriva la forza di coerenza e di novità del romanzo che apre la via, pur nelle sue peculiari caratteristiche, al realismo che dal seno del romanticismo si svilupperà poi – con altre componenti di gusto, di cultura, di esigenze letterarie e sociali, in parte italiane, in parte derivate dalla letteratura europea – nel realismo veristico di secondo Ottocento. Noteremo poi le forti differenze fra il realismo manzoniano e il verismo, ma certo nella nostra letteratura al suo piú alto livello l’intervento del Manzoni dei Promessi sposi costituisce un avvenimento di eccezionale importanza, una svolta decisiva, anche se quanto a profondità di problemi e ad altezza di risultati poetici pur sempre maggiore rimane la portata dell’opera leopardiana.

5. Sviluppo e aspetti artistici dei «Promessi sposi»

Una riprova della necessità interiore dei Promessi sposi e della coscienza che il Manzoni ebbe della decisiva importanza del romanzo come espressione del suo mondo maturo è costituita dal lungo lavoro che egli dedicò allo sviluppo e al perfezionamento della sua opera maggiore.

Infatti il romanzo ebbe inizialmente una prima stesura, conclusa nel 1823 con il titolo di Fermo e Lucia, e che, mentre sostanzialmente già corrispondeva alla trama definitiva e conteneva i grandi motivi del romanzo, aveva però una certa sua autonomia rispetto alle stesure successive non solo e non tanto per la diversa e piú ibrida soluzione del linguaggio e dello stile (ancora pieno di tracce di linguaggio lombardo e viceversa di maggiori residui di linguaggio illustre), ma soprattutto per un fondo di maggiore aggressività polemica (contro gli errori morali, contro la mentalità e la moralità secentesca e gesuitica, contro l’ingiustizia dei potenti e prepotenti a danno degli umili) a cui in gran parte risale lo sviluppo tanto maggiore di certi episodi (soprattutto quello di Gertrude e quello dell’Innominato – allora chiamato Conte del Sagrato – nella sua storia precedente alla conversione) che insieme rappresentavano le punte di un gusto romantico piú acceso e drammatico.

E certo questa prima stesura ben indica una fase esplosiva del romanzo e un momento in cui il Manzoni appare tutto sommato piú carico di sdegno morale e storico, piú aggressivo e come piú apertamente e democraticamente sensibile alle ingiustizie sociali, piú offeso dalla scelleratezza di una società crudele e ipocrita, traditrice del messaggio liberatore cristiano, specie nelle storiche forme di quel Seicento che il cattolico Manzoni attaccava anche con maggiori particolari, ben significativamente per la sua fedeltà alla posizione illuministica, che tanto aveva condannato quel secolo e tanto aveva fatto per distaccarsi dalla sua eredità.

Poi nella nuova stesura del ’25 (pubblicata nel ’27) il Manzoni venne operando una forte revisione del romanzo che da una parte può anche apparire come una perdita di parti tutt’altro che prive di una loro forte efficacia e come un lento spostamento da forme piú aggressive a forme piú misurate e piú caute, ma che d’altra parte non può certo non considerarsi come la maturazione di una dimensione piú armonica e sobria che l’autore, dal punto di vista congiuntamente etico-religioso e artistico, intese imporre come frutto di un superiore ritegno e riserbo da cui certi episodi (ripeto pur di per sé alti e ben coerenti alla prospettiva generale della prima stesura) discordavano. E basti ricordare come la narrazione degli amori fra Egidio e Gertrude fu sostituita dalla semplice e profonda frase: «La sventurata rispose».

La stesura del ’25, con il titolo definitivo di Promessi sposi fu poi sottoposta ad una lunga e a volte puntigliosa revisione linguistica che, mentre da un lato corrispondeva all’esigenza manzoniana di applicare la sua teoria linguistica che proponeva per tutti gli italiani (parlanti o scriventi) il fiorentino d’uso, dall’altro era anche coerente a un piú profondo bisogno di stile piano, organico, dominato da una superiore armonia che voleva eliminare ogni scoria di effetti e colori eccessivi, voleva creare una prosa semplice e casta, tutt’altro che monotona (e anzi agilmente aderente ai vari toni del racconto, del dialogo, del monologo), ma priva di forti discordanze, equilibrata e sostanzialmente serena come lo spirito animatore del romanzo, quale si era sostanzialmente incarnato e realizzato nella stesura centrale del ’25.

Questa fondamentale serenità da cui nascono l’armonia e la misura del romanzo è il frutto della maturata visione del mondo che, come dicevamo, il Manzoni venne raggiungendo appunto negli anni in cui scrisse i Promessi sposi. Al centro di questa visione è la Provvidenza divina, sicché non a torto il romanzo è stato definito l’epopea della provvidenza, tanto essa interviene decisamente e paternamente, severamente e amorosamente in ogni nodo importante del romanzo e addirittura nei suoi angoli piú nascosti e periferici. Epopea, va aggiunto, che non ha tanto il ritmo e le aperte sembianze solenni, brusche e sublimi che l’intervento divino aveva nelle tragedie e nel Cinque maggio, quanto un modo di intervento piú continuo e quotidiano, una presenza che, pur varia di toni (a volte di turbamento degli uomini superbi e orgogliosi, a volte di sollecito e discreto ausilio in quelli dei mansueti e degli oppressi), evita modi di intervento miracolosi e drammatici, articolandosi segretamente o scopertamente in tutto il tessuto del romanzo, in tutta la fine gradazione psicologica degli stati d’animo dei personaggi. Per questo anche la conversione dell’Innominato (avvenimento fondamentale nello svolgersi del romanzo e vittoria eccezionale di Dio in un animo di peccatore ribelle e ostinato nel male) non è rappresentata dal Manzoni in modi improvvisi e come un miracolo folgorante e improvviso, ma con estrema complessità di graduazione e come un lungo passaggio psicologicamente motivato dalla situazione peccaminosa del grandioso e perverso personaggio, legato dalla catena dei suoi delitti a un’abitudine e quasi a un dovere di malvagità gratuita, alla sua presa di coscienza della propria profonda inquietudine invano coperta dalla sua attività malvagia; presa di coscienza che, sollecitata dalla compassione suscitatagli dalla indifesa e purissima Lucia, trova però un antecedente nei malessere piú volte da lui già avvertito e si concreta nella sua lunga notte affannosa, nel suo ripercorrere la propria vita, nella desolazione e nel senso di vuoto profondo che lo induce al tentativo di suicidio, nella nuova e piú complessa indagine sul limite della vita terrena e sul dubbio crescente circa una sorte ultraterrena e l’esistenza di quel Dio che prima aveva troppo orgogliosamente negato. Finché nasce nel suo animo una speranza di redenzione che troverà appoggio nella visita del cardinal Federigo in un paesello vicino, cosí provvidenziale, ma che – a ben vedere – appare non tanto come coincidenza miracolosa, quanto come estrinsecazione di una sorte provvidenziale che già aveva cominciato ad agire nel turbamento e nel malessere da cui l’Innominato era già dominato ancora prima dell’incontro con Lucia.

Insomma quella che è stata detta l’epopea della provvidenza è pur sempre un’epopea estremamente discreta, misurata, come l’ideale calato nel reale di cui parlò per i Promessi sposi il De Sanctis.

Perciò i personaggi non sono figure escogitate a freddo e adattate a un loro ruolo prefissato alla luce di un disegno edificante, di una dimostrazione astratta della potenza della provvidenza. Sono viceversa veri personaggi umani, umanamente e artisticamente rappresentati e sviluppati anche quando da un lato toccano quasi una perfezione sublime o, dall’altro, toccano il limite della macchietta e della caricatura.

Certo tanto piú facile è avvertire l’umanità semplice, schietta di Renzo, la coerente spontaneità della sua bontà generosa, dei suoi sdegni violenti e ingenui, la sua disposizione fiduciosa, la prontezza delle sue reazioni o gioiose (si pensi al suo lieto camminare tutto bagnato sotto la pioggia, dopo aver ritrovato Lucia nel lazzaretto, e a quel particolare cosí realistico e bonario del suo sgambetto gioioso al pensiero di quel ritrovamento: «e con ciò dava un’annaffiata all’intorno come un barbone uscito dall’acqua») o timorose (e si pensi al terrore che lo invade nell’attraversare il cupo bosco notturno durante la fuga verso l’Adda), la sua realtà di popolano con le sue componenti di istintivo amore della laboriosità, di antipatia per una cultura (il latino di Don Abbondio) di cui i colti si servono per ingannare i semplici, di solidarietà con gli altri uomini, di ribellione all’ingiustizia. E cosí dicasi dei personaggi cordiali o insaporiti di una certa malizia senza malvagità come sono quelli di Agnese o di Perpetua. Ma anche il personaggio di Lucia (che destò spesso critiche e dissensi per una sua certa eccessiva perfezione quasi angelica) è in realtà tutt’altro che astratto e la sua profonda fede, la sua stessa castità sono ben realizzate in un ritratto di contadina con la sua mentalità concreta e assennata, con la sua modestia di aspirazioni e con la tenacia di un amore purissimo, ma pur terreno e umanissimo, ricco di tenerezza e di sogni pur contenuti da ritegno e da un pudore cosí soavi, cosí poco arcigni e scontrosi. E cosí anche la virtú cristiano-eroica di padre Cristoforo, instancabile nella difesa degli umili oppressi e assetati di giustizia, ben si incarna e si configura realisticamente in una personalità in continua lotta di autodominio, di repressione dei propri istinti generosi nella loro componente piú aggressiva e sdegnata che potrebbe sconfinare nel pieno risorgere della giovanile impetuosità, se non la contenesse e indirizzasse piú convenientemente l’accettazione delle umiliazioni personali alla luce della profonda fede in una volontà superiore e in un superiore riequilibrio delle cose da parte della provvidenza.

D’altra parte il realismo psicologico, la concretezza dei personaggi del romanzo non sono mai privi di connotazioni storiche e sociali, che tanto piú combattono qualsiasi pericolo di astrattezza, di personaggi come tipi puramente psicologici (il violento, il pauroso, il mansueto ecc.).

La rappresentazione di tutto un secolo, il Seicento, si realizza infatti non solo in certe scene e descrizioni piú generali (vere «stampe» secentesche) che ne caratterizzano la tendenza al fasto, alla pompa, all’ipocrisia, alla cultura disorganica e retorica (la cultura di Don Ferrante!), alla prevalenza dell’autorità ingiusta (nel quadro concreto della Lombardia sotto il malgoverno spagnuolo alleato della classe semifeudale dei signorotti con i loro privilegi, con le loro guardie private, con la loro pratica esenzione dal rispetto di leggi che ricadono solo sui deboli), ma essa si incarna (al di là di un semplice sfondo di colore storico) nella mentalità e nel comportamento dei personaggi, cosí come nei caratteri sociali degli strati di una società storica cosí duramente divisa fra i detentori della potenza economica e politica (al centro la potenza dei dominanti spagnoli, intorno la classe dei signori e dell’autorità ecclesiastica con i suoi privilegi condizionati dalla sua alleanza con i dominatori e i privilegiati) e le classi subalterne sottoposte ad ogni arbitrio, esposte ai flagelli della povertà, della fame, della guerra che si abbattono su di loro al di fuori di ogni loro interesse e di ogni loro possibile intervento.

Cosí le connotazioni storico-sociali contribuiscono fortemente alla vita di personaggi minori, sia quelli piú tetri e malvagi (come Don Rodrigo, Attilio e la figura del padre di Gertrude cosí livida e pur inconsapevole della sua crudeltà, tanto essa vive interamente la dimensione spietata delle convenzioni del suo tempo e della sua classe), sia quelli intonati ad una comicità variamente festosa o venata della tristezza di un’umanità e società cosí poco cristiana, cosí inconsciamente dominata dal puntiglio, dal prestigio e dall’egoismo: sarà il caso del pedantesco Don Ferrante rappresentante di un’aristocrazia inetta ed esercitante il proprio prestigio nello sfoggio di una cultura caotica e fertile; sarà il caso della moglie di lui, Donna Prassede, con il suo zelo bigotto e geloso della propria autorità pur nella convinzione di spendersi per il bene altrui; o sarà il caso del conte zio e del padre provinciale uniti – pur nella loro diversità di effettiva potenza e di funzione nella società del tempo – da un comune comportamento di personaggi di autorità e dall’uso di armi diplomatiche sottili e cavillose, dalla persuasione – nel sopruso ai danni di padre Cristoforo voluto dal primo e accettato finalmente dall’altro – di esercitare la propria funzione di difesa del prestigio e della potenza della propria famiglia e classe, nel caso del conte zio, del proprio ordine religioso e delle sue possibilità mondane nel caso del padre provinciale.

Ma anche i personaggi piú alti e complessi vivono in una precisa configurazione storico-sociale, sino al caso altissimo del cardinal Federigo che santamente adopera la sua autorità di principe della Chiesa a favore dei poveri e mortifica la sua alta condizione aristocratica in un costume di vita ascetica, e che tuttavia non può né intende veramente rompere, ma solo correggere, pur con il suo profondo zelo religioso e umano, i rapporti sociali ingiusti inerenti alla società in cui vive e in cui è inserito. E, al contrario, allo stadio piú basso della piramide gerarchica della Chiesa, lo stesso Don Abbondio non è solo la figura di un debole e di un pauroso in una dimensione generale ed eterna, ma è storicamente e socialmente caratterizzato in una situazione e in una mentalità condizionata da un’educazione storica che dispone all’ossequio ai potenti anche se scellerati, da un’intrinseca, anche se eccessiva e anticristiana, debolezza della sua condizione di povero parroco di campagna atterrito e quasi convinto della invincibilità della forza e dell’ingiustizia in un secolo e in una società cosí dominata appunto dall’ingiustizia e dalla forza. E certo il Manzoni sarà tutt’altro che indulgente nei confronti di questo misero e comico personaggio che non riesce mai a vincere veramente i propri limiti, a comprendere i doveri di sacrificio della sua professione religiosa, e tuttavia questo personaggio è anche storicamente la concretizzazione dell’estrema rovina morale causata dalla situazione storica e dalla mentalità di un secolo che ha potuto ridurre a tale viltà e degradazione un pastore di anime, un rappresentante di quell’altissima concezione cristiana che il Manzoni valutava soprattutto nella sua pratica attuazione, nel suo spirito eroico di abnegazione e di sacrificio a favore anzitutto degli oppressi e degli umili. Sí che la comicità che accompagna la rappresentazione di Don Abbondio avrà come una sua patina malinconica avvalorata da una sorta di pietà che non riguarda solo i limiti di carattere del singolo individuo, ma il peso che su esso grava di una situazione e di una mentalità di tutto un secolo e di tutta una società; tanto che la stessa scelta del sacerdozio da parte di Don Abbondio appare non frutto di una vocazione spirituale, ma di una scelta di professione meno scomoda e piú protetta da parte di un debole e non privilegiato, sospinto cosí a questo grave errore dalla stessa condizione di un tempo fatto solo per i «vasi di ferro».

Né d’altra parte si tratta di personaggi rigidamente determinati: ché entro la concretezza dei loro caratteri storici e sociali essi hanno pure una loro personalità morale che li rende persone vive e suscettibili di conversioni e di atti coraggiosi e decisi.

Al realismo romantico misurato e sobrio del romanzo contribuisce poi la presenza di un paesaggio concreto, efficace, familiare e vario, che sa duttilmente intonarsi (senza eccessi di lusso descrittivo, ma con estrema funzionalità narrativa) ai toni prevalenti nei vari episodi, sia che collabori a momenti piú desolati e squallidi (le campagne bruciate dalla siccità o la città spopolata e spoglia negli episodi della carestia e della pestilenza), sia che sottolinei la povera e modesta vita dei contadini-artigiani con le loro casette rustiche e le povere osterie di cosí magre risorse, sia che con la luce delle diverse stagioni, con il profilo dei monti, con la voce amica di fiumi familiari, accompagni e consoli le vicende dei personaggi perseguitati, come accade nella bellissima sequenza della fuga di Renzo da Milano verso l’Adda dopo che la notte e il bosco, con i loro aspetti misteriosi e paurosi, avevano cosí potentemente, e pur sobriamente, contribuito a quell’abbandono alla disperazione che sta per vincere il personaggio prima della gioiosa e confortante scoperta del fiume che gli assicura la salvezza in territorio veneto.

Personaggi, paesaggi, clima storico e sociale, tutto trova sotto la mano discreta, ma possente del grande scrittore un accordo armonico, una fusione e un’organizzazione nitida e distinta, uno sviluppo costante e naturale, cosí come la mirabile prosa manzoniana si avvale delle forme della narrazione, del dialogo, del monologo, in una eccezionale fusione armonica e articolata in cui un intero mondo storico e sociale, una folla di personaggi maggiori e minori, si esprimono e vivono con estrema naturalezza e con incisiva chiarezza, mentre il narratore non manca di affacciarsi piú personalmente in brevi commenti e osservazioni indimenticabili eppur cosí discreti e alleggeriti da uno humour e da un’arguzia, ora piú lieta ora amara e malinconica, che essi non rompono mai l’interesse narrativo e il compatto mondo rappresentato.

Né mancano spiragli di un’indagine psicologica cosí profonda che rivela le possibilità del Manzoni, cosí sobriamente, ma al momento opportuno cosí potentemente impiegate, di dar voce a un mondo interiore misterioso e drammatico. Si pensi almeno, nell’episodio di Gertrude, al tormento ossessivo di questa a causa dell’uccisione della conversa, espresso con immagini cosí intense e formidabili nel loro incalzante progresso, pur nella loro misura e sobrietà: «Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lí e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile che nessuna persona vivente non ebbe mai!».

L’armonia che regola e governa il romanzo non è solo poetica, e artistica, ma è, in profondo (e perciò diviene veramente poetica e artistica) armonia e misura morale, armonia di una fede sicura, avvalorata da un’intelligenza lucidissima, che corrisponde, nell’anima dello scrittore, alla mano ordinatrice della provvidenza divina, alla sua capacità di armonizzare e risolvere l’intrico delle vicende, di far nascere il bene dal male, di far sorgere dalle infinite tristezze ed errori del mondo una letizia fiduciosa e modesta.

Ed ecco: nella prospettiva religiosa del Manzoni (che va intesa e compresa se non ci si vuol precludere la via a comprendere le condizioni particolari della sua arte) il romanzo culmina (al di là di ogni volontà apologetica, mai astratta e schematica, ma tutta fusa intimamente con l’intuizione fantastica del narratore) in una conclusione fiduciosa e rasserenante proprio perché raggiunta attraverso tante sciagure, peripezie e pene. È la conclusione della storia dei due umili protagonisti che nella pace raggiunta commentano le loro vicende e trovano (con la loro saggezza di «povera gente», come l’autore sottolinea, ma sostanzialmente in accordo con la saggezza dello scrittore cattolico) che i guai sono spesso inevitabili, ma che, per qualunque ragione vengano, «la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». Ma soprattutto è la conclusione ancor piú profonda e commossa che si trova nelle parole con cui padre Cristoforo raccomanda a Renzo e a Lucia, che si sono ritrovati e riuniti nel lazzaretto, di ringraziare il cielo («ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie per disporvi a un’allegrezza raccolta e tranquilla») e che verrà suggellata nell’estremo saluto del frate a Renzo. A Renzo che gli chiede ansioso «Oh caro padre! Ci rivedremo? Ci rivedremo?», padre Cristoforo risponderà solo: «Lassú, spero».

Scaturiscono dunque dal romanzo – ma non come una lezione o una predica astratta – un imperativo di comportamento umano e una speranza nell’aldilà, come una compensazione terrena e una ultraterrena fra di loro inseparabili e connesse intimamente alla fede manzoniana, alla visione morale-religiosa del Manzoni.

Certo nella direzione della storia moderna questa visione e questo imperativo di comportamento, questa doppia compensazione alle pene e ai tormenti, alle ingiustizie della vita mondana, mostrano i loro particolari limiti pertinenti ad una intuizione cattolica che smorza, nell’accettazione di una volontà superiore, la stessa possibilità degli umili e degli oppressi, delle classi subalterne dominate, di prendere coscienza attiva dei loro diritti, di agire ribellandosi e rivendicando la loro libertà su questa terra senza attendere l’ipotetico compenso della loro sofferenza nell’aldilà. Sicché nelle riprese della lezione manzoniana da parte di cattolici piú conservatori questa poté diventare alibi di un paternalismo molto tiepido e di un sostanziale conservatorismo, cosí come nell’ultimo sviluppo dell’attività del Manzoni si accentuarono i limiti del suo moderatismo, si venne sempre piú spegnendo la carica del suo cristianesimo liberal-democratico.

Ma due cose vanno ben affermate. Una è che entro la linea della tradizione cattolica italiana il Manzoni anche nei Promessi sposi portò una fede tanto piú accordata con le tendenze ottocentesche di libertà e di attenzione alle condizioni del popolo, degli umili e degli oppressi. L’altra è che, pur nei limiti di una prospettiva non certo rivoluzionaria, la stessa indicazione e rappresentazione della vita degli umili e delle ingiustizie da loro sofferte è comunque una importante novità, specie se si consideri, come deve ben farsi, che ciò avveniva in una ispirata e possente opera artistica (certo fra le massime dell’Ottocento italiano ed europeo), capace perciò di diffondere vastamente questa nuova attenzione alle condizioni del popolo e di promuovere un indirizzo letterario ormai ben diverso da una letteratura diretta solo a letterati e colti e rivolta a rappresentare solo le vicende dei grandi e dei potenti.

Tutto ciò, ripeto, non avveniva in un’astratta forma di esposizione ideologica, ma in una concreta opera artistica, in un organismo poetico vasto e armonico che veniva a costituire una pietra miliare nei nuovi sviluppi della moderna narrativa con le sue nuove esigenze realistiche, con le sue esigenze di un linguaggio non aulico e classicisticamente erudito, con le sue istanze di rappresentazione di tutta una società nelle sue condizioni storiche e sociali.

Né si trattava, come si è pur a lungo pensato, di un’opera dominata da una pura intenzione apologetica e oratoria, ma di un’opera poetica che trova forza in una robusta fede e in una visione della vita che non possono tanto esser valutate astrattamente fuori dell’opera stessa, ma che in questa si incarnano organicamente e con alto risultato artistico.

6. I piú tardi scritti storici, letterari e linguistici

La stagione intensa di creatività poetica del Manzoni si chiude in realtà assai presto, con la seconda redazione dei Promessi sposi, nel 1825, anche se, come abbiamo già detto, la lunga revisione del romanzo per l’ultima sua edizione del ’40-42 non può certo risolversi unicamente in un impegno di ripulitura linguistica priva di ogni ragione artistica e di ogni innovamento psicologico-artistico.

Negli anni piú tardi della maturità e della senilità il Manzoni, perduta la spinta creativa, si volse a scritti dedicati o a problemi di carattere storico o a nuove meditazioni sulla teoria letteraria o, con piú continuo e lungo svolgimento, alla trattazione della questione della lingua già affrontata e risolta concretamente nella propria scelta linguistica di scrittore nell’ultima redazione del romanzo.

Ad un problema del romanzo, del resto, si ricollega quella Storia della colonna infame (1842) che, riprendendo il tema già trattato nelle sue Osservazioni sulla tortura da Pietro Verri, si contrappone alla posizione dello scrittore illuminista fondata sul valore dei pregiudizi, delle leggi, dello spirito del tempo come causa di quei processi assurdi e tremendi, sforzandosi, con lucido acume (e non senza la capacità di pagine alte nello scavo psicologico dei personaggi e nella pietà commossa per i condannati innocenti), di dimostrare che, malgrado i pregiudizi e le leggi secentesche, i veri colpevoli di quegli inumani processi e delle loro feroci e stolte sentenze sarebbero stati non lo spirito del tempo da cui leggi, pregiudizi e mentalità degli stessi giudici derivavano, ma quei giudici singoli, la cui coscienza se non fosse stata traviata da passioni e interessi avrebbe potuto evitare l’ingiustizia delle condanne.

È evidente che la tesi sostenuta dal Manzoni è storicamente errata, troppo astrattamente separando i singoli giudici dal loro tempo, dalla logica storica di leggi e metodi procedurali, e che nello spirito manzoniano veniva prevalendo un moralismo troppo astorico: come considerare quei giudici nella loro assoluta solitudine di coscienza e fuori della mentalità, dei pregiudizi del ’600? E cosí, ancor piú gravemente (e con piú rari spiragli di pagine mosse comunque da un afflato morale e da una vena di humour cosí diversamente efficace nel grande romanzo), l’astrattezza e l’insufficienza dello spirito storico del Manzoni, la sua incapacità di veramente comprendere la storia e i suoi grandi movimenti rivoluzionari, si rivelano in quell’incompiuto Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, che piú chiaramente ci mostra non solo l’involuzione del Manzoni piú tardo rispetto ai piú fervidi entusiasmi giovanili, ma, in qualche modo, i pericoli di legalitarismo e di conservatorismo insiti nella stessa centrale concezione politica e storica del grande scrittore cattolico liberale.

Tale è la tesi sostenuta in quel Saggio, secondo la quale, mentre la rivoluzione italiana del ’59 fu legittima e giusta nel suo abbattere i vecchi governi, la grande rivoluzione francese fu illegittima e ingiusta sia nei mezzi violenti adottati sia nello stesso fine eversivo e illegale. Il Manzoni dunque, nel suo profondo bisogno di giustizia e nel suo appassionato sdegno contro la violenza, finiva però – a causa del suo legalitarismo eccessivo, del suo liberalismo troppo formalistico – per non capire la grandezza e la novità della rivoluzione francese e la necessità di una violenza popolare e liberatrice, tanto meno ingiusta della violenza permanente e oppressiva del vecchio regime monarchico assoluto e del suo stesso forzato camuffamento costituzionale adottato sotto la forza della prima ondata rivoluzionaria dell’89.

Qui è da porre un forte limite al liberalismo e al democraticismo manzoniano che finiva per coincidere con un moderatismo conservatore, nemico di ogni movimento rivoluzionario necessario ad una libertà e ad una democrazia effettiva e concreta. Ben diverso fu il giudizio dei suoi contemporanei democratici piú veri (pur nelle loro forti e diverse gradazioni) sul valore liberatore e storicamente positivo della rivoluzione francese e ben diversa cosí risulta in fine l’apertura politica del Manzoni rispetto a quella non solo di un Pisacane o di un Cattaneo, ma di un Mazzini e persino di vari liberali piú storicamente avveduti e comprensivi.

Nei due scritti di discussione estetica (il trattato dialogico Dell’invenzione, steso nel ’41, pubblicato nel ’50, il Discorso del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione del ’45) l’acuto bisogno manzoniano della «verità» diviene quasi un assillo e uno scrupolo intransigente, trovando (nel primo trattato) un fondamento oggettivo trascendente, Dio, che l’artista rivela – non crea – derivando dalla sua fedeltà ai fatti, che da quell’Oggetto superiore emanano, la sua serietà e la sua missione (combattendo cosí ogni arbitraria finzione immaginativa individuale), e giungendo (nel secondo trattato) a condannare, in nome della verità, il romanzo e il dramma storico (e dunque condannando se stesso, creatore dei Promessi sposi e delle due tragedie) perché mescolanti storia e invenzione.

Ma la massa piú imponente di scritti manzoniani piú tardi è quella delle trattazioni linguistiche, precedute già nel ’24 dalla prima redazione dello scritto Sentir messa (che doveva far parte di una grande opera, Della lingua italiana, mai realizzata e di cui restano solo abbozzi e moltissimi appunti), e poi realizzate in forma di interventi sulla questione della lingua (la lettera al Carena Sulla lingua italiana, del ’45; la relazione al ministro della Pubblica Istruzione, Broglio, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, del ’68; l’appendice, del ’69, alla predetta relazione; le due lettere al Broglio, del ’68, Intorno al libro «De vulgari eloquio» e Intorno al vocabolario; la Lettera al marchese di Casanova, del ’71) che si organizzano in una teoria argomentata con sicura logica e dimostrante il fatto che la lingua è un insieme di vocaboli e di norme grammaticali regolate solo dall’uso e non da artificiose escogitazioni di eruditi. Questa lingua d’uso deve essere, per il Manzoni, comune a tutta una comunità nazionale e direttamente identificata con la lingua d’uso di una particolare città che, per ragioni storiche, si sia imposta su ogni altro dialetto, come avvenne in Francia con la lingua parigina e come in Italia avvenne (malgrado tanti tentativi teorici e pratici contrari) per la lingua fiorentina. Ma la teoria manzoniana, sostanzialmente vittoriosa nei suoi elementi fondamentali e da considerare insieme (come abbiamo già fatto) nella sua pratica attuazione artistica nei Promessi sposi e nel valore esemplare che in quel capolavoro assume, finisce, specie in queste tarde trattazioni, per irrigidirsi fino ai limiti della pedanteria, tanto da giustificare le accuse di un Carducci contro il manzonismo degli stenterelli, dei goffi e pedanteschi applicatori del piú rigido fiorentinismo (nonché le rivolte di tanti scrittori successivi, giustamente preoccupati e dei diritti di innovazione linguistica personale e dell’apporto dei diversi dialetti italiani alla lingua comune), permettendoci cosí conclusivamente di verificare anche nel settore degli scritti linguistici quanto abbiamo detto per tutti gli scritti tardi del Manzoni. E cioè un progressivo irrigidimento dell’ingegno manzoniano, un suo progressivo aumento di razionale sottigliezza e di dottrinaria schematicità a scapito dei piú profondi motivi animatori della grande stagione creativa.